Articolo realizzato da Irene Foresti
Giornalista e autrice di numerose pubblicazioni sul cibo e le tradizioni alimentari
Laureata in Scienze e Tecnologie Alimentari, si occupa di qualità e sicurezza alimentare, sostenibilità e ricerca storico-gastronomica

O mangi questa minestra o salti dalla finestra è un detto diffuso un po’ in tutta Italia, ma sempre con lo stesso significato: bisogna accontentarsi di ciò che si ha.
Già, perché la minestra è la biada dell’uomo (recita un noto proverbio), fa bene al cuore, calma la fame e raffina l’appetito (a detta del gastronomo francese George Aguste Escoffier). Insomma, sette cose fa la zuppa: leva la fame e la sete tutta, sciacqua er dente, empie er ventre, fa smartì, fa abbellì, fa le guance colorì.
Per molto tempo, la minestra è stata uno dei perni fondamentali attorno alla quale girava l’intero sistema alimentare di ampie fasce di popolazione. A Bergamo, per esempio, in genere per pranzo c’era la polenta e per cena la minestra, un perpetuo ripetersi dello stesso schema che perdura ancora oggi nelle abitudini delle persone anziane.
Quando si parla di minestra, ovviamente, non bisogna pensare alla pastina in brodo di dado, ma a tutto il colorito mondo minestrario, che ricomprende anche le cugine pappe, zuppe, creme, vellutate ecc., termini che in lessico culinario hanno un preciso significato tecnico (è zuppa se il brodo viene versato sul pane raffermo ed è pappa se invece vengono cotti assieme), ma nel linguaggio comune sono sovrapposti o liberamente interpretati.
Certo è che dare una definizione univoca a questi piatti ed operarne una classificazione sistemica e univoca (sempre che ciò sia necessario ed utile) è piuttosto difficile, soprattutto se si scava nel loro passato.
Per esempio, nel suo ricettario l’Artusi ha collocato i cappelletti fra le minestre in brodo ed in Romagna le paste ripiene servite in brodo sono dette minestre ripiene.
Insomma, è un vaso di Pandora che in questa sede non è il caso di scoperchiare.
Si tratta, comunque, di preparazioni che non fanno parte (salvo rari casi) dell’empireo gastronomico italiano, poiché ritenute comuni e ordinarie.
Nonostante questo, la minestra ha rappresentato l’identità di molteplici gruppi sociali. Fino al XVII secolo (prima di essere epitetati come mangiamaccheroni) i napoletani erano detti mangiaminestra per la loro propensione per la minestra maritata, gli irlandesi dell’800 si identificavano come soupers ed i partigiani erano fortemente attaccati alla pasta e fagioli, idilliacamente definita come una squisitezza.
Non solo.
Proprio per il suo valore identitario, la minestra ha sempre ricoperto il ruolo di inclusione sociale e conviviale. È noto che ne I Malavoglia, Padron ‘Ntoni mangia la minestra da solo in un angolo quale segno della sua estraneità al convito. D’altro canto, nell’immaginario collettivo qualunque zuppa non si può cucinare per una sola persona, non tanto per lo spreco di tempo necessario a prepararla, ma soprattutto perché la minestra è da sempre vivanda conviviale destinata ad unire a tavola, un po’ come la polenta.
Il brodo primordiale
Alla base di qualunque minestra c’è sempre il brodo (si ricordi che fino a tutto il ‘700 il brodo congelato o essiccato era parte integrante delle provviste da viaggio).
In passato, a differenza di oggi, il brodo era tenuto in gran pregio dal punto di vista nutrizionale, come un vero e proprio alimento. E non a torto, se si pensa che un buon brodo porta con sé buona parte dei nutrienti dei cibi che vi sono stati fatti bollire.
A tal proposito, è significativo il fatto che in latino il brodo sia detto ius, termine che a sua volta significa anche diritto.
Come mai?
Il cuoco sa sintetizzare un buon brodo dagli elementi che ha a disposizione, al pari di un giurista che fa lo stesso con i principi enunciati nelle leggi, interpretandole nel modo migliore possibile.
Tornando al suo valore nutrizionale, non è un caso se le confraternite la cui missione era aiutare poveri, infermi e viandanti facevano in modo che nelle proprie cucine fosse sempre disponibile del brodo e che lo stesso fosse associato al concetto di “grasso” in diversi contesti.
Ad esempio, i romagnoli cappelletti di magro erano così detti non solo perché avevano un ripieno senza carne, ma anche perché erano consumati asciutti e non in brodo.
Inoltre, come insegna il proverbio je venuto a stufà er brodo grasso, bisogna fare attenzione a rinunciare a qualcosa di sicuro ed importante pensando di migliorare, con il rischio di trovarsi poi in condizioni peggiori.
Quando gli ingredienti per ottenere un buon brodo scarseggiavano, non restava che ricorrere a qualcosa che almeno gli desse un po’ di sapore. Ecco allora nascere preparazioni come la gnotta messinese, ottenuta facendo bollire ciottoli (cutigghiuni) di mare, le cui incrostazioni di alghe e molluschi portavano un ottimo sapore, parvenza di una minestra vera.
La funzione ristorativa (acconcia stommaco per dirla con Ippolito Cavalcanti o tisanam per dirla alla Apicio) del brodo si trova nella stessa etimologia del termine minestra, dal latino ministrare, ossia amministrare ma anche somministrare, servire nei piatti.
Il dispiego di attività volte all’accoglienza ed al ristoro e il ruolo corroborante di brodi e minestre ha portato ad un’alta specializzazione delle strutture ricettive (a Roma, il minestraro era un oste che preparava, appunto, solo minestre) ed al fiorire di preparazioni che portavano nel nome un inequivocabile richiamo a tale funzione (dalla minestra romana pasta e stracci alla zuppa santè napoletana, destinata ai convalescenti).
Usi conviviali e ricettari storici
Come ogni piatto, la minestra è legata a particolari usi gastronomici e porta con sé una discreta carrellata di citazioni nella letteratura gastronomica storica.
Se un po’ ovunque era condita con latte o lardo, era preparata in eccedenza rispetto ai fabbisogni per consumarla il giorno dopo (come la polenta) ed era spesso frutto del riutilizzo di avanzi (come i ritagli delle ostie, nell’uso monastico-conventuale), la minestra poteva essere sorbita da vari contenitori (come i calici nell’uso dell’epoca romana) e si prestava a rappresentare passaggi importanti della vita familiare.
La comasca supa d’imbroi (zuppa degli imbrogli), per esempio, era il pasto tradizionale dalle famiglie dei futuri sposti nel giorno del fidanzamento, momento in cui si cominciavano a condividere i difetti dei reciproci figli.
Altrettanto colorite sono le denominazioni minestrarie che si trovano nei ricettari storici: oluscula (minestre di verdure e lardo, epoca romana), crema barrica (Apicio, minestra di legumi, verdure e orzo), brodo theutonico, gallicano, saracenico (Liber de coquina, XIII-XIV secolo), minestra di krapfen, minestra del paradiso, minestra di bomboline di farina, minestra di mille fanti (Artusi, XIX secolo), eau du Piémont (XIX secolo).
Ricorrente nei ricettari storici è anche il biancomangiare, leucophagon per i Greci e mamjar branquo per i portoghesi. Più che una ricetta è un tipo di preparazione che prevede solo ingredienti bianchi sia dolci che salati (latte, riso, mandorle, carni bianche, castagne, zucchero) ed il cui valore più che nutrizionale è estetico; nulla a che fare con il “mangiare in bianco” per motivi di salute come intendiamo oggi, bensì con i messaggi di purezza e virtù veicolati dal colore bianco, soprattutto nell’immaginario trecentesco.
Il mondo delle minestre
Se è pur vero che il brodo è la base di ogni minestra, le manestre longhe le sa da fame, come si dice in Lessinia. Minestre troppo liquide non saziano, vanno necessariamente arricchite con qualcosa a costo di trasformarsi in basoffia (termine mantovano per minestra grossolana e abbondante) sebbene senza sfociare in bujacca (la minestraccia dei carcerati romani).
Le uniche minestre che devono, per natura intrinseca, essere servite in brodo sono quelle a base di gnocchi (canederli, mariconde ecc.) e di paste ripiene (cappelletti, tortellini ecc.), che devono ergersi quali isole sul mare brodoso tuffandosi nel brodo e non affogare in una melma di panna.
Uno dei metodi più diffusi per “ispessire” le minestre era quello di riutilizzare il pane avanzato.
Molto nota, a tal proposito, è l’acqua cotta, cibo dei pastori maremmani che transumavano verso la Romagna e le Marche, preparata con brodo di pecora, abbondante pane (poiché acqua cotta, pane spreca e trippa abbotta, sazia) e condita con formaggio pecorino.
Simili sono le svariate minestre di pane e cereali (panade, panisce ecc.): la zuppa monzese, le piemontesi sùpa da pitun o zuppa dello straccione, panigaa, pan ceutch e supa mitunà, le valdostane vapelenentze, seuppa au fret, pèilà nèye, viandon, peyla d’orzo, panade douce e pan perdu, la zuppa col siero romagnola, i friulani brodo brustolà e minestra di bobici e le lombarde splècc, minùs e plòt.
Capitolo a parte meritano le zuppe di orzo (urgiade, orzade ecc.) che accompagnavano le giornate della mattanza suina. La particolarità di queste zuppe è che erano preparate in grandi qualità e consumate per giorni, riscaldamento dopo riscaldamento.
Altro abbinamento fra cereali e parti meno nobili del maiale era quello con il riso, presente soprattutto lungo le rive del Po, assurgendo spesso al rango di piatto nuziale (minestra di riso e fegatini) o, se con uova sbattute e formaggio (riso legato romagnolo, cotto nel brodo delle ossa), di minestra da signori.
Non va dimenticato che la minestra serale era a base di latte e riso e che quest’ultimo è il protagonista di molte minestre definite sporche (per la presenza di ritagli vari del maiale) e maritate (già citata nel ricettario di Ruperto di Nola, XV secolo). Nel lessico gastronomico, un piatto è “maritato” quando contiene qualcosa di insolito o raro, come per esempio l’osso del prosciutto.
Nonostante il suo carattere festivo, la minestra maritata a Napoli era il piatto quotidiano dei più povere e lo è stata fino a quando è stata soppiantata dalla pasta, tra ‘500 e ‘600.
Quando le uova non servivano solo per legare, ma erano l’ingrediente principe della minestra, quest’ultima si trasformava in stracciatella, nota anche come ristoro o brodetto (Lazio), impaiolata, tritura o tardura (Romagna e Toscana), zuppa pavese (Lombardia), panatella ecc.
Già citata con il nome di ginestrata, nel Libro de arte coquinaria del XV secolo (per fare brodetto de pane, ova et caso), era molto in voga nella cucina di corte e nei banchetti nuziali per il suo colore giallo (simbolo aureo). Una minestra ambita, dunque, tanto che quando in inverno le uova scarseggiavano e la si preparava senza, era definita minestra matta.
Più rare erano le minestre di pesce (sbroscia, brodo di pesce avanzato ecc.) e di carne, anche se è bene precisare che più che di carne si trattava di interiora o scarti, che finivano in piatti come il buglione e la scottiglia toscani (zuppa ripiena o cacciucco di carne) ed il suffritt (zuppa forte) e la zuppa alla marescialla (‘e carnacotta) napoletani.
Che dire dei minestroni? Già, perché di minestrone non ce n’è solo uno, potenzialmente ce ne sono mille ed ancor più. Dal minestrone vallassinese con il riso, a quello napoletano con la pasta a quello genovese consumato a colazione o fritto!
Quest’usanza deriva, verosimilmente, dall’attività dei catrai, piccole osterie su chiatta che vendevano minestrone al pesto alle imbarcazioni alla fonda nel porto. Ciò che avanzava, una volta raffreddato, era poi fritto e riutilizzato.
Se si parte dall’assunto che si può definire minestrone un’ampia gamma di minestre di verdure e/o legumi, eccone alcuni esempi dai nomi coloriti: minestra di ranati (Abruzzo), mesciùa (Liguria), scafata (Lazio), ava coccia e sucialestar (Veneto), carabaccia e minestra di mulignane (Toscana), minestra col veraöl (Bergamo).
Il minestrone, al pari del brodo, ha corroborato schiere di soldati impegnati al fronte durante la Seconda guerra mondiale (questa è la fabbrica del minestrone, il carburante del battaglione! Nel dì della vittoria ricorda, o bersagliere, che un po’ della tua gloria la devi al cuciniere, recitava un cartello all’ingresso di una cucina militare del periodo), anche se a Mussolini non doveva piacere molto. Nel 1924, infatti, il Duce fece chiudere la mensa di Montecitorio proprio perché il “fetore” del minestrone si diffondeva dalla stessa fino alle stanze alte.
Un aroma che molti oggi ricercano, invece, al pari di un cimelio storico (forse non a torto).
Ci sono, poi, le minestre che “si sono fatte un nome”: la ribollita toscana, la olla potrida (non putrida ma dallo spagnolo poderida, ossia poderosa, ricca per le carni che contiene), la sopa coada trevigiana o suppa cuada sarda (covata, governata), la piemontese supa barbetta (dall’epiteto barbèt dato ai Valdesi, ossia persona da rispettare, forse per il loro ruolo di predicatori), la jota friulana (fagioli e rape acide).
Come è facile intuire, il tema delle minestre e delle zuppe meriterebbe una trattazione degna di un libro, ma per ragioni di spazio in questa sede posso solo, per concludere, limitarmi ad una carrellata solo nei nomi e nelle zone geografiche, giusto per stuzzicare curiosità ed appetito.
Partirei dalla capitale (cucuzza maritata, minestra co’ la ritirata), per passare alla Basilicata (patate e fasuli impastata), alla Sardegna (su rosu, lepudrida), all’Abruzzo (minestra le virtù), all’Emilia Romagna (patacùc, minestra col fischio, minestra nel sacchetto), alla Lombardia (lacc cocc, puntesela, vivarolo, broda, melonz, farinarsa), alla Campania (truocchio, zuppa di millefanti, cicci di S. Lucia), alla Liguria (preboggion), al Veneto (smaltamuri), alla Sicilia (minestra alla matalotta) ed infine alla Toscana (zuppa del diavolo, infarinata, minestra unta).

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